ABU DHABI

THAILANDIA
&
CAMBOGIA

8 - 29 dicembre 2013

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KAMPHONG PHLUK (1/2)

Intorno il bosco, nelle cui radure si insinuano le risaie, è ricco di vita; ogni pozza è la salvezza per qualche bufalo stanco. Risaliamo ancora la collina, fino allo Kbal Spean, un luogo santo nel fitto della foresta, che si raggiunge dopo un faticos(issim)o cammino, lungo un sentiero contorto e ripido, tra alberi giganteschi che ricoprono di rami il cielo, da cui pendono liane a rendere ancor più problematico il procedere. Il torrente, meta del cammino è però quasi in secca e le sculture fatte in secoli di devozione sulle rocce del fondo, sono quasi tutte affiorate ed allo scoperto. I mille lingam che devono fecondare le acque che, carezzevoli, scorrono su di loro, ricoprendoli appena, emergono asciutti e neri, come inutili e sterili, in attesa che il monsone arrivi. Tutto però è coperto di muschio verde e le radici gigantesche ricoprono il suolo assediando lo spazio dove il torrente tenta di farsi largo tra le foglie secche, molte delle quali, invece, sono farfalle giganti che si alzano appena al mio passare per posarsi subito dopo a confondersi con il bosco. La cascatella è anch'essa un rivolo.

Seguo il torrente per qualche centinaio di metri per osservare tutte le divinità che le forme delle rocce scure hanno suggerito nei secoli e poi scendo lentamente a valle. Verso il fondo incontro una coppia di coreani che sale sbuffando; devono ancora soffrire parecchio. Ancora il pomeriggio dedicato al complesso di templi della zona di Roluos. Attorno al Ba Kong è pieno di venditrici di manghi. Grandi, gialli, maturi e profumatissimi. Ne faccio scorta pregustandone la delizia della polpa morbida e succosa. Mi vedo già all'opera col coltellino svizzero, con le mani tutte sbrodolate di sugo appiccicoso; sempre il purgatorio prima di conquistare un pezzetto di paradiso. Chissà perché tutti questi frutti fantastici hanno un nocciolo così grande?

LETTERE DALLA KAMPUCHEA 15: CASE SUL FIUME.
Oggi pausa dalla realtà virtuale dell'archeologia e tuffo nella realtà reale del popolo dell'acqua. In Cambogia ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono sull'acqua. Sui fiumi e sull'immenso lago Tonlé Sap che occupa tutta la parte centrale del paese, espandendosi e riducendosi di cinque volte, gigantesca cassa di espansione in cui rifluisce anche l'acqua del Mekong, quando l'intensità del monsone impedisce al mare di ricevere la massa di precipitazioni. La straordinaria ricchezza biologica di questo bacino, ha consentito lo svilupparsi di una vera e propria civiltà lacustre, fatta di villaggi di palafitte, di case-barca, di zattere galleggianti, di insediamenti provvisori che sfruttano a seconda dei periodi le parti affioranti durante le secche. In aprile il livello minimo consente a queste genti di spingersi avanti nel lago, su isolotti affioranti e argini malfermi che con l'abbassarsi del livello, vanno ricoprendosi di verde tenero e provvisorio.

Kampong Khleang è il più grande insediamento fluviale del paese e si sviluppa per alcuni chilometri lungo le rive di un immissario minore del lago. La strada per arrivarci abbandona la nazionale ad una quarantina di chilometri da Siem Reap e percorre un alto argine lungo il bordo destro del fiume. Di tanto in tanto gruppi di capanne si raggrumano, in vicinanza di uno slargo, attorno ad uno spazio sterrato e polveroso dove subito trovano spazio i banchi di piccoli mercati improvvisati. C'è un gran movimento di biciclette, motorini e carri colmi di derrate; a volte la strada è occupata parzialmente da stuoie coperte di riso messo a seccare al sole, diversamente i bambini sono padroni assoluti degli spazi di fronte alle capanne. Il fiume a lato è ormai un rivolo secco maleodorante, una fogna imputridita che non riesce neppure più a scorrere verso valle, una poltiglia fangosa in cui finisce tutto quanto e da cui comunque la comunità trae vita, cibo e acqua. Man mano che ci si avvicina all'area più popolosa, si rimane impressionati dall'altezza delle palafitte che emergono dal fondo del fiume e che mostrano chiaramente dove può arrivare il livello durante la piena. Le capanne ed anche le case meglio strutturate sembrano in precario equilibrio su sottili pali di oltre dieci metri di altezza, sottili e fragili all'apparenza, che forse proprio per questo si moltiplicano fino a formare una fitta ragnatela di liane a cui le abitazioni, più che sostenute, paiono appese. La gente le raggiunge con lunghe scale appoggiate agli ingressi, alcune fungono da negozi, altre da officine o magazzini.

Dappertutto la vita ferve vorticosa. Sullo spazio centrale una camionetta con tanto di megafono fa propaganda elettorale, scommetto promettendo meno tasse e più riso per tutti. Un sentiero fangoso scende verso un imbarcadero affollatissimo di natanti di ogni tipo, incuneati tra nasse giganti, bilance e trappole di canne e marchingegni per la cattura del pesce di grandi proporzioni. Una cooperativa di pescatori ha capito che i turisti rendono e ti porta a fare un giro fino al lago per un paio d'ore per una cifra esorbitante. Ma almeno sono soldi che rimangono qui, nella comunità e non sembrano un furto. A passare tra le case galleggianti guardando la vita che scorre attorno a te, par di guardare un film neorealista. Tutti ti salutano, anche se si stanno lavando alla meglio immersi nella melma giallastra, qualcuno rema veloce per portare ad un vicino mercato una barca piena di frutta, altri tornano dal lago carichi di foraggio acquatico o col risultato della pesca. Al contrario di quanto si avverte quando si gira per le campagne, dove sempre provi una sensazione di tranquilla pigrizia, di serena lentezza, qui tutto ha un aria più frenetica e caotica; forse per il sovraffollamento o per il senso di sporcizia e di disordine, anche se allegro, che traspira dalla difficoltà di vivere in queste condizioni. E' un giro istruttivo, che ti mostra come si riesca ad andare avanti in assoluta "normalità" anche in situazioni che, solo descritte, potrebbero sembrare insostenibili.

Quando la barca mi riporta sull'argine, faccio un lungo giro a piedi tra le baracche, mi sembra più opportuno chiamarle in questo modo, per cogliere ancora qualche frammento di vita, per cercare di capire quanto sia adattabile la specie umana. Poi il mio tuk tuk riprende la via del ritorno. Ci fermiamo ad un banchetto che vende riso e cocco, cotto dentro a grosse canne di bambù. Ormai l'intestino si è placato oppure si è piano piano abituato. A tutto ci si abitua, anche condizioni impossibili possono diventare vita quotidiana, assoluta normalità. Al ritorno, liquido il mio driver dopo quattro giorni, con una generosa mancia, più dello sconto che mi aveva fatto dopo una estenuante trattativa. Dapprima non capisce, poi mostra la sua soddisfazione Rado, sì come l'orologio, che ha appena preso la patente e spera al più presto di mollare il tuk tuk e di passare ad un auto vera. Un progresso sociale che lo rende pieno di orgoglio e di speranza. A sera mi porta in centro a Pub Street, ma non vuole essere pagato, dice che gli porterò fortuna.

LETTERE DALLA KAMPUCHEA 16: SOLO NELLA FORESTA.
Oggi sarà una giornata lunga. Alle 5:00 la donnina della pensione Bun Nath, che io mi ostino a chiamare Bunpàt grazie al costo, mi ha preparato la consueta omelette col riso. Anche il proprietario, ancora assonnato, viene a salutarmi con grande calore. Guardo ancora la postazione internet free (4 PC con cuffie e Skype in una pensione da 13 $ a notte), le loro tastiere con appiccicati i caratteri cambogiani e i loro windows taroccati e poi salto sul costosissimo mezzo che ho dovuto procurarmi per questo lungo giro fuori dai sentieri battuti. Questo è uno degli svantaggi di muoversi da solo. Questa tour mi costerà quanto le quattro giornate precedenti, albergo compreso, un bel verdone da cento, ma anche se ho trattato alla morte come un cammello egiziano, non sono riuscito a scendere sotto questa cifra.

L'autista è un ragazzotto dall'apparente età di dodici anni, con le unghie (di tutte le dita, non la consueta mignolesca) talmente lunghe, da sperare che non mi afferri il collo se non lo mancificherò, le mie giugulari ne sarebbero irrimediabilmente tranciate. Per ora la strada è buona e risale verso le foreste del nord, che a poco a poco diventano più fitte, gli alberi più alti, i bassi arbusti, più impenetrabili. I gruppi di capanne diventano più rari ai bordi della strada, circondati dal verde in piccole radure di terra rossa che una agricoltura primitiva tenta di strappare al bosco, secondo il devastante modo del taglia e brucia. Forse pochi sanno che i maggiori danni all'ecosistema forestale del mondo non lo hanno fatto le multinazionali del legno, ma i milioni di agricoltori primitivi che ancora oggi usano questa tecnica; ma questo è un lungo discorso che va ad inficiare tutta la religione del buon selvaggio che conosce e ama la natura e si guarda bene dal mettersi contro la Grande Madre Terra che conosce e rispetta. Nessuno, specialmente chi ci campa sopra, vuole ammettere che l'uomo è un parassita inquinatore del pianeta per il solo fatto di vivere e di esistere.

Beng Mealea, la mia prima meta di oggi, è un grande complesso templare perso nella jungla, poco frequentato e di raro fascino. Il mio pulmino (che spreco, nove posti tutti per me solo) si ferma nel vicino villaggio che, di primo mattino è però, già sveglio ed in piena attività. Lo gnomo, privo probabilmente di corde vocali, mi indica un ponticello su uno stagno, che poi si rivela essere il grande fossato che circondava il tempio e si dispone alla cura delle sue mani, brandendo una grande limetta da unghie, dopo aver abbassato lo schienale del mezzo. Passo il ponte e mi inoltro nel bosco. Un paio di cartelli all'ingresso, assicurano che gli Italiani hanno sminato con cura tutta l'area (speriamo abbiano lavorato bene; che curioso però, prima una ditta italiana ha guadagnato per vendere queste porcherie, poi il nostro stesso paese ha speso un sacco di soldi per andare a toglierle; misteri del commercio internazionale). Comunque mi tengo al centro del sentiero segnato, anche per le esigenze fisiologiche, come suggerisce la Lonely; meglio farsi trovare in una posizione imbarazzante che avere qualche sorpresa peggiore. Non c'è un'anima viva. Poi tra grandi alberi slanciati dalla corteccia bianca e sfilacciata, un basso muro in rovina.

Entro attraverso un varco, probabilmente un portale crollato e dopo poco il tempio emerge tra il verde fitto, soffocante. Tutte le costruzioni, basse e pesanti sono avvolte dalla jungla che ha lavorato a lungo, insinuando le sue radici maligne tra le pietre, sollevandole, indebolendone le strutture principale, tentando di vincere l'opera umana scalzandone le fondamenta, rivoltandone le pietre ad una ad una come fossero un gran mazzo di carte da mescolare e confondere. Ma non è stato così facile o per lo meno ci vorrà ancora un po' di tempo per finire il lavoro. I muri perimetrali, anche se ricoperti di grandi tronchi sono ancora ben riconoscibili e le basse torri, anche se in apparente equilibrio instabile, puntano ancora orgogliosamente verso gli scampoli di cielo che si aprono tra la massa verde che si affanna cercando di ricoprire il tutto. (Frase fatta: E' un posto magico).

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