ABU DHABI

THAILANDIA
&
CAMBOGIA

8 - 29 dicembre 2013

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Il BAYON (2/2)

LETTERE DALLA KAMPUCHEA 8: LA BARCA DEI DANNATI.
Non fidatevi degli amici (proverbio Cambogiano). L'amico in questione, ma adesso che lo so lo curo, era tornato da poco dalla Cambogia e mi aveva detto: una cosa da non perdere è il viaggio in barca da Siem Reap a Battambang. Assolutamente indimenticabile. Aveva ragione. A contribuire a renderlo tale, sarà stato senz'altro il culmine della stagione secca, mai a sufficienza segnalata come da evitare come la peste, fatto sta che alle 7 del mattino aspettavo, fedele alla consegna il mezzo che, incluso nel prezzo del biglietto mi avrebbe portato all'imbarcadero a una decina di kilometri dalla guesthouse. Chi fa questo tragitto solo per spostarsi, prende un comodo autobus che, usufruendo della nuova strada da Sisophon, ti porta a destinazione in quattro ore soltanto, ma il fascino dell'attraversamento del lago e dei villaggi galleggianti che si attraversano con la barca valgon bene qualche soldo e qualche ora in più, direste anche voi. Infatti il tragitto completo non lo fanno i locali, ma solo i turisti fricchettoni bramosi di colore locale. Eccoci quindi caricati in una quindicina, sul pulmino da nove, inclusi bagagli e chitarre. Certo, perché i giovani saccopelisti vanno ancora in giro con le chitarre come 40 anni fa, che vi credete. Tutta gente dura, giramondo di lungo percorso, dall'occhio attento e scafati al disagio. Tutti grandi e grossi, donne comprese, purtroppo.

Arrivati in vicinanza dell'imbarcadero, i due più esperti si accorgono di aver dimenticato il passaporto così si torna indietro, per fortuna anche un terzo, giovane preda di Alzhaimer, si accorge di averlo a sua volta dimenticato in prossimità dell'albergo. Il fatto che i giramondo si siano dimenticati la combinazione della cassetta provoca ulteriori ritardi, ma alfin si parte. Il battello, in realtà è una lancia strettissima, disegnata a misura di locali, per cui se devo tenere le ginocchia in bocca, non so dove mettere la pancia e così via, in cui veniamo stipati in una trentina. La lancia fila via lenta, perché di acqua ce n'è ormai pochissima e il fiume è ormai ridotto ad un fondo di cloaca fangosa in cui farsi strada lentamente, sterzando le secche con il remo. Intorno, la vita della gente del fiume, di cui però vi parlerò un'altra volta. Scivoliamo tra le palafitte e raggiungiamo il Tonle Sap, l'immenso lago, cuore della Cambogia, polmone idrico alla base della stessa vita del paese e del suo sostentamento. In questo momento il livello delle acque è al minimo, non più di un paio di metri e le baracche sulle palafitte sembrano case aliene appese ai lunghi pali di bambù. Le case barche invece, galleggiano vicine le une alle altre, con il loro brulicare di vita. Il lago è immenso, non se vede la sponda lontana e la barca finalmente prende velocità, dopo aver caricato un po' di locali da qualche zattera di passaggio, i quali, date le dimensioni minute, non hanno difficoltà a sistemarsi accoccolati tra i giganti caucasici. Il sole brucia sulla pelle, ma dopo un paio d'ore raggiungiamo la sponda opposta e cominciamo a risalire un fiume dagli stretti meandri, tra le rive di terra rossa coperte di scarsa vegetazione. Solo l'acqua è quasi completamente ricoperta da giacinti di fiume e loti in fiore, di grande bellezza, ma che rendono ancor più faticosa la navigazione.

Sulle rive ormai sempre più strette, uno dopo l'altro, si susseguono villaggi di capanne di legno o di semplici frasche su alte palafitte, che fanno intendere bene fin dove arrivino le acque quando è il momento. Le ginocchia dolenti e la quasi impossibilità di muoversi, rendono il viaggio sempre più duro. Dopo cinque ore il fiume è un rivolo melmoso e la vita che si dipana sulle sue rive lascia stupito chi ha poca dimestichezza con l'oriente. Le pozze marroni, sono piene di bambini che sguazzano, di gente che si lava o lava i propri oggetti, stoviglie, panni, cibi, tra bufali grassi e tranquilli. Qui ci finisce tutto, ogni tipo di deiezione umana ed animale assieme agli scarti ed alle immondizie (poche) prodotte da queste comunità. Il fiume dovrebbe lavare tutto, ripulire, portare via verso il lago, naturalmente ricchissimo di vita e di pesce e poi al mare, ma vedere queste torme di ragazzini a mollo in questa fogna a cielo aperto, ti fa dimenticare per un pò il formicolio alle gambe.

Dopo un'altra ora, comunque la sopportazione comincia a diventare un problema serio e la barca si ferma ad una palafitta un po' più grande. In pratica l'Autogrill. Speriamo ci sia un bagno. L'australiana biondina di fianco a me a cui esterno i miei desiderata, alza gli occhi al cielo come una mater dolorosa e mi fa: - I hope so!-. La sosta è di una mezz'oretta. I locali si abbuffano subito di zuppa di noodles e pesce del lago, un gruppetto di nerboruti italiani addenta spiedini di carne ignota, qualcuno pesca nella ghiacciaia qualche lattina. Il caldo è insopportabile. Dietro la palafitta, sospeso a cinque metri sull'acqua, uno stanzino consente l'espletamento delle principali necessità, mentre piccoli topini corrono sulle assi di legni cercando di evitare di cadere nel grande buco quadrato, cosa che cerco di fare anch'io, pur osservando il colore del liquido sottostante e compatendo quanti, poco lontano, continuano a bagnarsi per cercare refrigerio e a lavare le stoviglie in cui vengono serviti i noodles di cui sopra. Ma bisogna ripartire. Ancora più ingrugniti e aggressivi, si riprendono i posti, cercando di guadagnare spazio a danno del vicino e la barca va, sempre più lentamente. Ogni incrocio con chi discende il fiume diventa un problema. Il remo affonda nella melma, l'elica sempre di più sfrega sul fondale basso. I passeggeri sono ormai irritati, ma alla settima ora di sofferenza, la barca non ce la fa più a proseguire, praticamente incagliata nella melma. Scatta l'ordine. Tutti giù, forzatamente in mezzo alla orrida fanghiglia melmosa, la cui collosità organica che ti risucchia i piedi e le caviglie non è certo data solo dall'alta percentuale di argilla. Lo schifo viene attenuato dalla necessità di guadagnare la riva, su cui, tra gli arbusti, vengono gettati frettolosamente i bagagli, poi la barca se ne va, lasciandoci con i polpacci infettati di una vischiosità sospetta, che però, grazie al caldo insopportabile, si secca rapidamente. In mezzo al campo, due pick up malandati aspettano le loro vittime. Saliamo all'arrembaggio, dopo averci buttato sacchi e e valigie. I più veloci riescono ad assicurarsi un posto un po' più morbido tra le masserizie, i grassi e vecchi (che è meglio che se ne stiano a casa), già con fatica riescono ad issarsi sul bordo del cassone. Due ore terrificanti di pista, piena di buche fangose, fustigati dai rami spinosi ai bordi della strada, ad ogni curva appesi alle bacchette per evitare di essere sbalzati fuori. Poi a poco a poco, la pista diventa sterrato più liscio, poi una parvenza di asfalto, infine si arriva ad uno spiazzo polveroso alla periferia della città, pronti all'assedio dei tuk tuk in cerca di clienti. La prima cosa da fare è prenotare il biglietto per il pullman di dopodomani.

LETTERE DALLA KAMPUCHEA 9: UN TUK TUK IN AFFITTO.
L'alba a Battambang è calma e sonnacchiosa come si conviene ad una pigra cittadina di provincia, che se non fosse per l'ospedale di Emergency, che per primo se ne è occupato, neppure ci si renderebbe conto di essere al centro di uno dei territori più fittamente ricoperti di mine antiuomo del mondo. Ne hanno seminati a milioni nelle risaie e nella foresta fino al confine thailandese di questi ordigni schifosi, studiati apposta per non uccidere. Troppo semplice sarebbe; no, la mina rende soltanto invalido, senza gambe, senza braccia o cieco, così da farti diventare un problema per il tuo paese per decenni, per sempre. Legioni di invalidi popolano questo paese, che darebbe loro una pensione di 25 dollari al mese, ma ritirabili anche tutti assieme, cosa che quasi tutti hanno fatto e che in un attimo si sono esauriti; così rimane soltanto il problema di vivere ogni giorno. Eppure è un territorio ricoperto di bellissime risaie, che non appena comincia la stagione delle piogge, si vela del un tenue verde oro degli steli di riso, la ricchezza della Cambogia.

Il tuk tuk di Toni scoppietta lento lungo la strada. Che piacere girare così al ritmo di questa campagna, adesso polverosa e calda, tra poco ricoperta di acque. Gruppi di capanne su basse palafitte, costruite da poco di fianco alle buche delle mine o delle bombe, su terreno finalmente sicuro, oppure villaggi vecchi con le case fatte di legno antico che la furia della guerra ha solo sfiorato, dove il proprietario, camminando a piedi nudi, sul lucido impiantito di scuro tek ti racconta in francese la serena vita del nonno che lo ha costruito, mostrando con orgoglio un vecchio mobile di foggia europea che chiama la consolle. L'antico tempio Phnom Banan sulla collina ha 5 stupa in rovina. Le pietre sembrano oscillare su queste strutture quasi morenti; eppure il tempio vive, con piccoli altari dove qualcuno porta un'offerta, brucia qualche bastoncino di incenso, lascia un frutto. Qualche monaco solitario sembra meditare silenzioso nella calura del meriggio. Uno di loro, magro e allampanato, stretto nel suo telo arancio, all'ombra di una grande albero, mi attacca un bottone. Vuol sapere chissà perchè, quante lingue parlo, poi si richiude nel suo silenzio statico, lo sguardo perso nel vuoto, parte dell'arenaria ambrata che lo circonda. Mi sembrava impossibile salire lungo i quasi 400 gradini corrosi dal tempo, una lunga scala ripida e cattiva che vuole sofferenza prima di farti meritare il Paradiso, la vista dall'alto della campagna circostante, delle emergenze di roccia lontane nella piana.

Una fatica feroce, spietata e senza intervalli per chi come me, oltre al pesante fardello dei propri peccati deve anche portare quello del lardo, uno zaino che non si può lasciare a valle, mentre i rivoli di sudore ti fanno dimenticare i due ematomi che la gita in barca di ieri ti ha lasciato per ricordo, in una parte del corpo che non posso per rispetto al tempio, nominare. Un ragazzino astuto ed ingegnoso, dotato di grande ventaglio mi segue per tutta la dura salita, facendomi aria per tutto il percorso, lento, passo dopo passo, ridendo del mio ansimare, ma che non ho la forza di scacciare, ma anzi della cui refolo leggero, procurata dai movimenti sapienti del labello, godo, mentre il sudore evapora provocando un fremito di frescura a lenire la fatica. Mai mancia sarà più guadagnata. Qualche kilometro più ad ovest, il monte su cui sorgono i vari piccoli edifici religiosi del Phnom Sampeau, che culminano in piccoli stupa dorati di recente costruzione. Questo è un altro dei luoghi di morte dove gli Khmer Rouges compivano le loro mattanze. Dirupi e forre dove le vittime, torturate a dovere, venivano gettate; templi trasformati in prigione, montagne di teschi che la pietà dei monaci raccoglie in grandi teche. Queste cose ti lasciano sempre senza fiato; il contrasto tra l'orrore e la bellezza del luogo stridono a tal punto da rendere difficile il fare ragionamenti, tentare spiegazioni. Così disceso, rimani seduto alla capanna a riprendere fiato, fisicamente e mentalmente.

Toni ha voglia di chiacchierare; così con un pezzetto di ghiaccio tra le mani prelevato dalla ghiacciaia, tra le lattine di Coca, racconta la sua storia. Era piccolo Toni, quando arrivarono gli Khmeri Rouges, aveva poco più di tre anni, eppure ancora si ricorda di quando arrivarono in città e come cominciò il rastrellamento casa per casa. Il padre insegnava francese nel liceo di Battambang e sapeva cosa gli sarebbe capitato, così fuggì sulle montagne con quattro compagni per tentare di arrivare in Thailandia. Con la mamma ed i suoi sette fratelli, lui era il più piccino, furono portati in un campo tra le risaie. La madre ed i fratelli più grandi ad alzare argini con zappe e badili fino allo sfinimento, i piccoli raccolti e separati e privi di tutto. Erano circa quattrocento bambini e dopo tre anni, dieci mesi e ventidue giorni di fame e di stenti, rimasero in una ventina. Lui perse due sorelle e un fratellino più grande. Il padre non riuscì a superare il confine ma visse quel tempo nella jungla dei monti Cardamomi, cibandosi di bacche e radici e alla fuga dei soldati, torno a valle coperto di foglie. Ritrovò quel che rimaneva della famiglia che finì in un grande campo profughi vicino al confine. Toni aveva ormai più di sette anni e benché la vita del campo fosse durissima, potè andare a scuola dove, spinto dal padre, imparò l'inglese. A quel punto fu data loro la possibilità di andare negli Stati Uniti, ma il vecchio professore pensò che nel nuovo paese che stava nascendo ci sarebbero state occasioni per chi aveva una istruzione. Così rimasero. Ma venne ancora la guerra civile e l'adolescente Toni finì in uno dei quattro eserciti che si combattevano a vedere altri orrori, a provare altre sofferenze. Adesso le cose vanno meglio. Lui parla inglese e se arriveranno molti turisti, avrà buone occasioni di guadagno e anche se l'affitto del tuk tuk gli costa 50 dollari a mese, magari un giorno riuscirà a comprarsene uno, per poter guadagnare un po' di più, per poter mandare la sua unica bambina ad una buona scuola superiore, perché, come diceva suo papà, puoi perdere tutto, ma l'istruzione è l'unica cosa che ti rimane nella vita. Ho già capito che toccherà largheggiare nella mancia.

LETTERE DALLA KAMPUCHEA 10: FLUSSI E RIFLUSSI. Il sole sorge presto anche a Battambang. Mentre il mio amico penserà a Phnom Penh alle cose che deve fare, un po' più importanti delle mie, la mia strada mi porta ancora verso Siem Reap, per una totale immersione nella ricchezza dei templi e della storia antica, la perla autentica, l'attrazione fatale che porta il turismo in Cambogia. Questa volta saggiamente, il pullman sarà il mio Garuda, per la barca ho già dato. Eccomi quindi di primo mattino, già stanco, ad aspettare il mezzo che deve passare dalla stazione di servizio vicina al mio albergo. Mescolato ai clienti in attesa come me, sorveglio il mio valigione; si portano sempre troppe cose inutili con sé, direbbe Diogene e anche il monaco che sarà mio vicino, detentore solo della sua bisaccia. Quando parte l'autobus, mi accoccolo tranquillo, cercando di godermi la vita che fluisce intorno, la fiumana di motorini e i trasporti che tanto affascinano noi occidentali. Chissà che anche lo zio di mio papà che faceva il cavallante a Valle San Bartolomeo facesse, con il suo biroccio, trasporti così pittoreschi come quelli che si vedono dal finestrino. Basta scostare la tendina colorata e vedi attraverso una finestra del tempo, cose che a te oggi fanno sorridere, ma forse uguali a quelle che vivevano i tuoi padri. Così la strada corre veloce, l'aria condizionata è sopportabile, quando inattesa, subdola e feroce, carognescamente cattiva, arriva lei. Quasi non te ne accorgi o quantomeno il sintomo è così mascherato da fartelo trascurare completamente, come cosa di nessuna importanza. Comincia con un lieve movimento, un quasi inavvertibile borborigmo tale da farti pensare di essere stato troppo tempo in una posizione contorta. Ti muovi appena e invece no, la leggera fittarella che si sposta lentamente verso il lato sinistro, prende corpo, manifesta a poco a poco la sua presenza inquietante e ammonitrice. Ulteriori movimenti e gorgoglii a livello gastroenterico, chiariscono che il problema esiste e che non si trattava di falsi allarmi. E' chiaramente in arrivo la maledizione di Montezuma o come altrimenti viene chiamata nei vari paesi del mondo, ma che sempre alla stessa cosa prelude. Momenti di sofferenza inaudita. Ormai hai capito. Si tratta solo di organizzare una linea di resistenza. Calcoli mentalmente le ore che ti separano dall'arrivo. Sempre troppe. Assumi una posizione il più possibile comoda e rilassata compatibilmente con la situazione e cominci operazioni di concentrazione mentale che i lunghi anni dedicati allo studio delle arti e delle tecniche del corpo orientali, ti hanno insegnato. Accidenti questo è il momento che servano a qualcosa. Inutilmente pensi a dove hai sbagliato. A quale è stato il momento in cui ti sei lasciato andare trascurando le precauzioni che ti eri promesso di rispettare con precisione. Forse ieri in quel mercato quando non hai potuto rifiutare l'assaggio di quel frutto delizioso che la donnina ha sbucciato con le sue manine, ben lavate. Coltello incluso un quell'orcio pieno di liquido marrone, o sarà stato il ghiaccio di quella deliziosa spremuta di mango, ieri sera, così godibile sulla balconata del Geko Cafè, mentre ti godevi il traffico animato del centro. Ma tutto questo ormai non conta più, anzi è troppo tardi lanciare maledizioni, cosa poi decisamente in contrasto con la ricerca del non pensiero che si sta cercando di raggiungere. Astrarsi dal proprio corpo e dalle proprie basse pulsioni, questo è il segreto, del Tao, dello Zen, degli insegnamenti del Buddha. Ma un conto è dirlo, la realtà invece non bada a queste cose. Gli impulsi arrivano sempre più impetuosi e violenti ad ondate regolari, che cerchi di vincere con un rallentamento della respirazione, poi la frequenza aumenta e la necessità diventa via via più ravvicinata, il controllo più difficile e faticoso. Sudi freddo e a nulla vale concentrarsi ad osservare il motorini che frecciano attorno, cercando di calcolare quanti maiali stiano nella sporta o quante oche siano attaccate alla stanga posteriore, la situazione peggiora continuamente. Qualche pausa in cui ti illudi che tutto possa posticiparsi risolvendo la situazione per il meglio, oppure convincendoti di avere avuto ragione sugli impulsi incontrollabili del tuo corpaccio avido di sensazioni terrene, invece no, ecco che il tutto si ripresenta e con maggior vigore, più forza, più implacabile determinazione. Allora ti assale lo conforto, al diavolo la forza della mente, cominci a capire che forse non ce la farai, che le forze della natura avranno un definitivo ed ineludibile sopravvento sulla tua volontà, che si sta inevitabilmente per raggiungere l'acme, il climax finale inevitabile, in un big bang primordiale che potrebbe dare vita ad una nuova era, un Kali Yuga oscuro e senza speranze. Poi d'improvviso, inopinatamente il pullman rallenta, sterza lentamente e imbocca uno sterrato laterale alla strada che conduce a delle baracche malandate circondate da una piccola folla. Non credi ai tuoi occhi, è l'isola per il naufrago ormai disperato di sopravvivere ai flutti di un oceano nemico, è il desiato traguardo raggiunto quando ormai sembrava superato il punto di non ritorno, il paradiso promesso e sognato, è il succedaneo dell'Autogrill. Appena si spalanca la porta, sei già in piedi, sgomitando sgarbatamente per scendere tra i primi, affrettandoti per risalire la fila dei monaci silenziosi, ma che si avviano infidi nella tua stessa direzione, una costruzione bassa con una paio di porticine sconnesse sul retro, da cui emergono liquami ed emanano odori che sono promessa e garanzia di essere nel giusto. Spalanchi con foga la porta ed a fatica ti introduci in una dimensione pensata per le taglie cambogiane, ti liberi come puoi degli inutili orpelli di cui la nostra civiltà ti costringe a bardarti e poi, dopo un tempo che ti era apparso infinito, finalmente ti lasci andare. Finalmente la pace. Sul tuo corpo costretto e sfatto dalla tensione, si distende un rilassamento totale, un momento di oblio e di serenità con cui poche cose hanno confronto. Poi a poco a poco la mente riprende il controllo della situazione, risolve i problemi materiali, con quello che trova a disposizione, valuta il grande orcio pieno d'acqua, il pentolino di plastica che vi galleggia, calcola, stima le possibilità, opera scelte, risolve per il meglio. Quando rivedi il sole, tutto ti appare sotto una luce diversa, più serena, oggettivamente più bella. Risali tranquillo, dando strada alle donnine e alle loro ceste, sorridendo ai monaci dai visi compunti e riprendi la tua posizione. Quando Siem Reap appare all'orizzonte, non sei più governato dalla necessità, ma prendi la tua valigia, calmo e tratti col tuk tuk il prezzo della corsa che ti porta alla tua nuova casa.

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