Un altro villaggio cambogiano...
|
|
|
|
|
LETTERE DALLA KAMPUCHEA 11: IL MISTERO DELLE PIETRE NERE.
Eccomi qui, nel cuore archeologico cambogiano, in uno dei punti dove si addensano opere d'arte straordinarie che da sole valgono e giustificano il viaggio, che delineano il livello e la grandezza a cui era giunta la cultura khmer. Una full immersion di cinque giorni per godermi con calma le antiche pietre anche al di là dei punti topici, di certo più importanti, ma spesso sovraffolati anche in questo periodo di bassa stagione. Ho fatto un accordo con un conducente di tuk tuk che per cinque giorni mi porterà in giro a mio piacimento, attraverso le decine di kilometri quadrati in cui sono sparse le rovine. Per cinquanta dollari sarà a mia disposizione dall'alba al tramonto, acqua nel contenitore pieno di ghiaccio compresa, come un milord inglese in visita nelle colonie, con un taccuino da acquerelli in mano per tratteggiare le immagini da riportare in patria, un portfolio di ricordi, di tesori perduti nelle jungle indocinesi. Eccolo infatti alle 6:00 puntale come un orologio svizzero, che mi aspetta dopo che mi sono ingoiato l'omelette alle cipolle di ordinanza, con abbondante riso bollito per tentare una stagnazione dei problemi che ho inopinatamente messo in piazza ieri.
|
|
|
Il cosiddetto petit circuit a cui mi dedicherò oggi è lungo una ventina di kilometri e tocca i templi più famosi e più conosciuti di Angkor. Il tuk tuk viaggia lento, non più di una ventina di kilometri all'ora e la vita ti scorre intorno ad un ritmo naturale e piacevole. Per arrivare alla porta sud di Angkor Thom si percorre quasi la metà del perimetro completo dell'immenso fossato di Angkor Wat. La dimensione di queste opere, subito ti colpisce e ti lascia attonito, incredulo quando lo paragoni ai fossati di difesa che conosci, davvero semplici fossi per le rane. Questo, largo centocinquanta metri e lungo quasi sei chilometri, dagli angoli perfettamente tagliati e circondato da gradinate, ti porta subito a pensare alle legioni di uomini e donne con ceste e badili che lo hanno scavato, come gli ancora più immensi Baraj, veri e propri laghi artificiali che al di la della loro funzione religioso-architettonico, erano stati il fondamento della straordinaria visione idraulica di regolamentazione delle acque, che aveva consentito mille anni fa, il crearsi di uno dei grandi imperi dell'Asia meridionale. Grazie a questi serbatoi fu possibile la vita e lo sviluppo agricolo per milioni di persone. Il declino cominciò proprio con lo sfaldamento tecnico di queste grandi opere.
|
|
|
|
|
Il portale di Angkor Thom, davanti al quale scendo, incute timore e rispetto. Attraversi il lungo ponte per passare un altro grande fossato e sei davanti a questa bocca del mistero, quasi il punto di ingresso in un'Ade immaginifica, di cui non sai prevedere il percorso. Le pietre corrose dal tempo, verdi di muschi, forate dalla pioggia sormontate dal grande volto del Buddha dallo sguardo perso nel vuoto, ti lasciano la scelta di entrare in un luogo fatato e di interpretarlo in sintonia con il tuo sentire. Un luogo che non ti vuole imporre ideologie, ma ti lascia libero di applicarvi le tue emozioni. Circondato dalla foresta ecco il Bayon con i suoi 1200 metri di bassorilievi straordinari che percorrono il corridoio perimetrale e la grande struttura centrale, che da lontano pare un cumulo di pietre abbandonate e che solo entrandovi e percorrendo i tre livelli che portano alla terrazza interna rivela la sua magia. Di colpo, appena superati gli ultimi erti scalini e i portali di pietra scanalata, ti ritrovi in una selva di volti giganteschi, rivolti in ogni direzione che ti circondano, ti avvolgono con la loro presenza immobile, sguardi perduti nella serenità meditativa, che sanno della tua presenza, ma che non ne sono affatto turbati. Una pietra scura che incombe nei passaggi stretti, nei corridoi che paiono angusti, costretti come sono, dalla mancata conoscenza della tecnica dell'arco e della chiave di volta, ad artifizi di equilibrio incerto a cui la pietra fatica ad adattarsi; eppure tutto si pone così apparentemente perfetto, così definitivamente finito ed armonico.
|
|
|
Siamo pochi a muoverci tra le pietre ammassate al suolo e le architravi cadute, così da darti una sensazione di solitudine piacevole e quando un anticipo di monsone rovescia una secchiellata di acqua sulla foresta, trovo riparo in una nicchia. Un gruppo di bambini, felici delle scroscio e bagnati fradici, giocano a nascondino a piedi nudi, correndo tra le colonne; intorno a me le Apsaras dei rilievi sul muro, danzano per il loro signore. La pioggia ha lucidato a tal punto la pietra nera da farla risplendere come un giaietto luminoso di un gioiello di tempi lontani. Si lascia il Bayon con fatica e dispiacere, vorresti rimanere lì per ore a confonderti con il non-essere dei volti del mistero, ma subito ti trovi a camminare tra gli alberi fitti, lungo un sentiero di terra rossa cercando la via per arrivare al Ba Phon, con la sua grande piramide rossa simbolo del mitico monte Meru che nasconde la sagoma di un Buddha disteso lungo 60 metri. Supero mura diroccate ed eccomi nel palazzo reale col tempio ormai in rovina del Phimeanakas, fino alla immensa terrazza degli elefanti davanti alla quale sfilano le dodici torri del Prasat Suor Prat, soldati immoti a guardia e protezione, rosse presenze che emergono tra gli alberi attraverso cui il sole fatica a farsi largo. Sono quasi le dieci quando scendo dalla Terrazza del re lebbroso, lungo lo stretto e tortuoso passaggio che ti costringe a sfilare di fianco al colossale bassorilievo che racconta di epiche battaglie con i suoi elefanti a grandezza quasi naturale. Fuori, sotto le piante mi aspetta il mio Garuda scoppiettante per portarmi nel fitto degli alberi verso altri misteri, altre scoperte. |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|