Il BAYON (1/2)
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LETTERE DALLA KAMPUCHEA 7: MATTINA PRESTO.
Nelle piccole cittadine cambogiane, la vita ha ritmi naturali. Ho orrore di questa parola e delle sue implicazioni, ma qui la uso con un significato neutro. Dopo il tramonto verso le sei, la notte cala di colpo e l'illuminazione è talmente scarsa che le attività scemano velocemente. Ormai ho preso questo giro e alle otto, otto e mezza, a nanna. Così al mattino verso le cinque tutti in piedi. Anche le guest house più basiche ti danno per colazione, una scodellata di noodles o una omelette con una corta baguette tostata, residuo culturale francese. Anche qui a Kampong Thom (a gentile richiesta inserisco una cartina per chiarire meglio le tappe del giro), l'alberghetto è su uno slargo della Highway n. 6, la principale arteria della Cambogia e su un dondolo del terrazzino ci si può godere la vita che riprende ogni giorno, vorticosa anche se sempre uguale. Dalla lontana Skyline di alte palme da cocco che inframmezzano le piccole camere delle risaie secche, il sole si è alzato da poco e la temperatura non si è ancora arroventata, anche se il soffio caldo che preannuncia un'altra giornata torrida, spira leggero come un phon lasciato sbadatamente acceso. Sotto è tutto un andirivieni di motorini con tre, quattro, cinque persone che vanno verso le varie attività. Stranamente quasi tutti i piloti portano il casco. Il motorino è il mezzo di trasporto principe da queste parti. Se non persone, vengono portate quantità esagerate di cose di ogni tipo; ecco che passa uno con un cestone di traverso con quattro maiali, non roba piccola, eh, Large white da ingrasso pronti da macellare; eccone un altro con una sporta piena di oche, ce ne saranno un centinaio; un terzo che quasi sparisce sotto centinaia di contenitori di plastica. In uno slargo si fermano due grandi camioncini, che faranno da trasporto collettivo verso qualche paesotto vicino. L'autista dormicchia sul sedile, ma ha una coorte di aiutanti che corrono qua e là a cercare clienti, strappandoseli uno all'altro, specie quando arriva un pullman grande dalla strada nazionale. Poi quando è pieno fino all'inverosimile, uomini e merci caricati alla meglio sul cassone, con gli ultimi arrivati che si tengono come possono, penzolanti fuori dal mezzo, se ne parte, tra sobbalzi e risate, in una nuvola di polvere. |
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Di fianco a noi c'è un grande albergo abbastanza pretenzioso, in realtà ho visto che i piatti alla nostra guesthose arrivano dalla stessa cucina, ma la Lonely lo spaccia come l'unico edificio di Kampong Thom ad avere un ascensore. Davanti arrivano due potenti fuoristrada neri, nuovi di zecca con i sedili in pelle chiara. Sulle portiere hanno il logo della FAO e i funzionari che ne scendono sono bene incravattati e portano cartelline in pelle griffate. Spariscono nella hall seguiti dai sottopancia. Credo che il costo di esercizio di queste organizzazioni sia un po' la loro principale motivazione di esistere, una idrovora di dollari con cui si compilano statistiche, report ma, forse, pochi fatti. Eppure con poco si farebbe anche tanto. Pensate che con i proventi raccolti con due edizioni della Stralessandria, una corsetta amatoriale di una cittadina di provincia, il mio amico e la Lieke hanno fatto oltre cento pozzi qui intorno. Più di cento gruppi di famiglie che possono bere dell'acqua pulita e che non vanno più all'altro mondo per dissenterie e parassitosi varie. Neanche il costo di uno di qui fuoristrada. Però il modo gira così, forse serve anche quello, è un sistema che si deve muovere. |
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Comunque è ora di muoversi davvero. Prima un giro al mercato, una vera calamita per chi arriva dalla cultura dei centri commerciali. Una attrazione morbosa per queste file di banchi coperti di mosche con sotto qualche pezzo di carne e frattaglie, pesci secchi o vivi che si dibattono nelle ceste nel tentativo inutile di sfuggire alla loro sorte, altri cheti, come rassegnati, ma tutti via via afferrati, tagliati a pezzi, puliti sul posto, tra risate e dinieghi verso gli aspiranti fotografi. Poi il trionfo dalla frutta poco conosciuta, ma rigogliosa e abbondante. Le cascate di manghi maturi, banane ed ananas mignon, la serie dei frutti dall'interno gelatinoso e dolcissimo, talvolta un po' allappante, i mangoustini, i rambutan e tutti gli altri senza nome. Ma il tempo stringe, tra poco arriva il pullman. Sono pronto con il mio valigione, stilisticamente poco adatto, ma rotto a tutte le tempeste. Ecco che arriva sollevando nuvole di polvere che aspettano ansiose il monsone. Controllo che mi carichino la valigia e me ne vado al posto assegnato, vergato a mano sul biglietto, prenotato ieri sera dal barbiere. Tutto pare un po' confusionario, ma in realtà tutto funziona con una certa precisione. Salgono un sacco di monaci avvolti in teli di arancioni diversi, alcuni quasi nuovi, altri più slavati, magri, silenziosi e discreti, ma tutti con regolare telefonino. Vanno anche loro a Siem Reap, la città dei templi, dove a fine settimana ci sarà una grande festa buddhista. Poi la solita umanità varia, sempre gentile e cortese con l'ingombrante straniero. Si buca una gomma a metà strada, ma è l'occasione per calare giù a sgranchirsi le gambe, osservando le operazioni. Arriviamo verso mezzogiorno. |
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. La città è ormai un forno crematorio. Abbandonato sul tuk tuk che va verso la guesthose Bunnath, godo dell'aria che la pur bassa velocità produce, asciugandomi il sudore che noi grassi produciamo come zampilli di fonti d'alta montagna. Faccio sempre più fatica, sarà il peso o l'età che incombe? Mah. Però questa è solo una tappa di passaggio, domani si va fino a Battambang. Qui ci ritornerò dopo, a godermi con calma i templi di Angkor Wat per una settimana intera. Però un primo contatto per approfittare della luce calda del tardo pomeriggio è obbligatoria. Dunque, controllato che l'aria condizionata della camera faccia il suo dovere (lo ammetto sono un turista da aria condizionata, anche se poi di notte tocca spegnerla perché mi da fastidio quando mi soffia dritta sul letto), via con lo stesso tuk tuk (è un po' come per gli uccelli volanti di Pandora, quando ne scegli uno è per la vita) per un primo approccio con lo splendore di Angkor Wat al tramonto, tanto dopo le 5 non si paga. Certo anche se lo hai già visto in mille salse, mentre percorri il lungo ponte sul fossato che circonda il più grande complesso monastico del mondo, quella luce ambrata che avvolge di arancio tenue le guglie lontane, il lungo serpente di arenaria che segna la via, le mille colonne le cui ombre si allungano e tra le quali i pochi visitatori, data la stagione, si disperdono diventando parte del tempio stesso, quasi come veri pellegrini, vinti dalla maestosità del luogo, ti prende e ti doma, ti fa passare il caldo in secondo piano, ti costringe a non muoverti di fretta, a sederti, a tentare di diventare parte di una dimensione che ha addirittura sopito la furia distruttrice degli Khmer Rouges, che lo hanno risparmiato, come tutti quelli che sono arrivati qui negli ottocento e più anni della sua storia. Che odore di pace! |